ATTENZIONE: post ad alto tasso di seghe
mentali. Dato che avete milioni di cose migliori da fare che leggere
questo, potete tranquillamente chiudere la pagina, tanto se siete arrivati fino a qua (grazie) il contatore di visualizzazioni è già scattato e il mio
ego è già gratificato (basta poco per farmi contento).
Detto questo... Ieri sera ero con il
mio compagno di sceneggiature Zappa per lavorare a un'ideuzza
spettacolare per un fumetto su cui ci rompiamo la testa da secoli per
proporla a un editor americano. Quando ci siamo posti il problema
della traduzione la mia indole filosofica si è scatenata. Perché
abbiamo capito subito che non basterebbe far tradurre il nostro
scritto a “uno bravo” con l'inglese. Il problema è che noi
l'abbiamo pensato in italiano e certi riferimenti, certe sfumature,
certe atmosfere probabilmente sono connesse alla nostra lingua e
verrebbero miserevolmente perse nella traduzione. Un po' come se uno
dovendo scannerizzare un quadro di Van Gogh usasse come formato un
file da sedici colori. Decisamente il risultato non sarebbe lo
stesso. E qui l'indole filosofica ha iniziato a sragionare. Prendete
la parola “cane”. Siamo abbastanza sicuri che nella parola
tradotta “dog” non ci sia una gran perdita di informazioni. Un
cane è un cane, negli Stati Uniti come in Italia. Ma se consideriamo
la parola “pensiero”? Per noi evoca come minimo l'antica Grecia
cosparsa di gente che filosofava mentre mangiava e si dedicava ad
altre attività piacevoli. Ma anche Seneca, Kant, Marx, Hegel, Heidegger,
Nietzsche... ecc... Che è gente che non solo abbiamo studiato a
scuola ma è stata parte stessa con le proprie idee della costruzione
della nostra civiltà europea occidentale. Quando diciamo la parola
“pensiero” abbiamo tutto questo retroscena implicito. E
probabilmente è implicito anche per uno che non ha mai studiato
filosofia nella sua vita, perché quelle idee sono entrate nel senso
comune. È la stessa cosa per un americano? Forse almeno in parte. E
per un giapponese? Molto probabilmente no. Quella parola per lui
evoca probabilmente qualche koan zen da meditare sorseggiando una
tazza di tè versato con l'apposito rituale. Estremizzando il
discorso in realtà non c'è bisogno di andare a pescare nell'estremo
oriente. Forse quando io dico “cane” ho in mente quel simpatico
cucciolotto che avevo quando ero bambino mentre un'altra persona ha
in mente quell'enorme mastino che quando aveva tre anni aveva cercato
di ingropparlo. E le sensazioni evocate, anche se magari non sono
percepite a livello cosciente, non possono che essere profondamente
diverse. Ecco allora che le parole contengono ed evocano un mondo che
non è detto sia coincidente a quello di partenza. La comunicazione è una continua
creazione e distruzione e ricreazione di scenari e la comprensione di
quello che ci dicono non è altro che una versione a sedici colori di
un quadro di Van Gogh che noi reintegriamo con colori a nostra
scelta. E figuratevi il macello che si scatenerebbe se invece di
considerare la parola “cane” prendessimo la parola “amore”.
Dell'indicibile bisognerebbe tacere, Wittgenstein aveva (forse)
ragione.
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